Le nostre pillole di storia dell’arte
Il Giubileo di Modena e Nonantola è un’occasione per riscoprire il patrimonio artistico che ha segnato la storia di questi territori. Dalle splendide sculture romaniche della Cattedrale di Modena agli affreschi medievali dell’Abbazia di Nonantola, ogni opera racconta secoli di fede e bellezza. In questa sezione esploreremo i capolavori che rendono unico questo evento attraverso l’arte.

Trinità e angeli
Scuola bolognese, metà sec. XVII
Olio su tela, cm. 181×130 Campogalliano, Chiesa di S. Orsola
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La tela, realizzata da un pittore anonimo della scuola bolognese del XVII secolo, è conservata nella Chiesa di Sant’Orsola Vergine Martire a Campogalliano, in provincia di Modena. L’opera raffigura la Santissima Trinità con Dio Padre che sostiene la croce su cui è crocifisso Cristo, mentre al centro della composizione si trova la colomba dello Spirito Santo, simbolo della presenza divina. Ai lati della croce, due angeli inginocchiati, vestiti con abiti vivaci—uno in verde e l’altro in rosso—esprimono con gesti e sguardi un’intensa devozione. La scena si svolge in un’atmosfera celestiale, con un cielo cupo e drammatico che enfatizza il pathos del sacrificio di Cristo e la potenza salvifica del mistero trinitario. Come hanno riconosciuto gli studiosi, l’autore dell’opera ha guardato con grande attenzione alla pittura del bolognese Guido Reni, celebre interprete del classicismo seicentesco. Il dipinto rappresenta infatti una derivazione, con alcune riduzioni e varianti, della pala realizzata dal maestro per la Chiesa della Santa Trinità dei Pellegrini a Roma. L’influenza di Reni si percepisce chiaramente nei panneggi fluidi degli angeli, nella dolcezza dei tratti e nella costruzione armoniosa della composizione. La luce gioca un ruolo fondamentale, guidando l’occhio dell’osservatore verso la figura centrale di Cristo e creando un equilibrio visivo tipico del classicismo barocco. A colpire, nella nostra opera, sono l’armonia cromatica, la delicatezza delle espressioni e la struttura piramidale della composizione, che riflette l’equilibrio e la grazia propri della scuola bolognese. La rappresentazione degli angeli, caratterizzati da movimenti aggraziati e gesti misurati, richiama la spiritualità ideale cara all’estetica di Guido Reni e dei suoi seguaci. L’uso sapiente della luce e del colore contribuisce inoltre a creare un’atmosfera di intensa sacralità, in cui il tema della redenzione e della misericordia divina viene esaltato con grande sensibilità artistica. Non sappiamo quando la Trinità arrivò presso la Chiesa di Sant’Orsola Vergine Martire di Campogalliano. L’edificio ha tuttavia una lunga storia e un ricco patrimonio artistico. Una prima chiesa dedicata a Sant’Ambrogio sorse nel XV secolo e, in seguito, fu sostituita da un edificio intitolato a Sant’Agata divenuto parrocchiale nel 1501. L’attuale struttura, risalente al 1795, fu ampliata nel 1830 con la realizzazione delle tre navate che caratterizzano l’edificio odierno. Oltre alla Trinità, la chiesa conserva altre opere di grande valore artistico, tra cui una pala raffigurante Sant’Orsola attribuita a Lavinia Fontana (1610-1614), una delle prime pittrici professioniste nella Storia dell’Arte italiana. La presenza di queste opere testimonia il ruolo centrale della chiesa non solo come luogo di culto, ma anche come custode del patrimonio culturale e artistico della regione.

Madonna in adorazione di Gesù Bambino
Scuola emiliana inizi sec. XVII
Olio su tela; cm. 190×130, Sestola, Chiesa di S. Nicolò di Bari
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L’opera, un olio su tela, è custodita nella Chiesa di San Nicolò di Bari a Sestola, nella terza cappella a sinistra. La scena è ambientata in un paesaggio naturale, con alberi e colline sullo sfondo. Al centro è raffigurata la Madonna, in un manto blu decorato d’oro, simbolo di purezza e regalità. Tiene le mani incrociate sul petto e ha il capo inclinato per esprimere devozione. Davanti a lei, sul prato, il Bambino Gesù è disteso su di un drappo rosso. Due angeli completano la scena stando a fianco a Gesù: uno tiene una croce con il nastro, l’altro offre una ghirlanda di fiori. L’opera celebra il culto dell’Immacolata Concezione, che vede Maria preservata dal peccato originale e modello di purezza assoluta.. Questo dipinto è una copia di una tavola di Francesco Raibolini detto il Francia, celebre maestro bolognese del Rinascimento. L’originale di Francia, ora nell’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera, è ricordato a partire dal XVIII secolo a Mantova, presso il convento francescano delle monache di Sant’Orsola. L’opera ebbe una grande fortuna e si conoscono numerose copie oggi tra chiese e musei italiani ed esteri. In ambito emiliano, oltre alla replica di Sestola, si possono ricordare le tele di analogo soggetto presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna, nel Museo dei Cappuccini di Reggio Emilia e quella un tempo nella chiesa delle Domenicane di Modena. Rispetto all’originale, nell’opera di Sestola sono state aggiunte le figure di San Giovannino e di un angioletto, per arricchire l’opera forse assecondando le richieste dei committenti. La copia che si trova a Sestola è un’interessante prova di come l’influenza di Francesco Francia sia rimasta forte nel corso del tempo e della costante reinterpretazione, anche nei secoli successivi, di alcuni suoi modelli da parte di numerosi maestri. In questo caso non è noto l’autore del dipinto, ma gli studiosi hanno ipotizzato possa trattarsi di un maestro bolognese attivo agli inizi del XVII secolo.

Ultima cena
Scuola modenese inizi sec. XVIII
Olio su tela, cm. 180×135,5, Modena, Palazzo Arcivescovile
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L’opera in esame è conservata presso il Palazzo Arcivescovile di Modena, nella saletta di ricevimento.
Ad essere raffigurato è uno dei momenti più significativi della tradizione cristiana: l’Ultima Cena. Al centro della composizione Gesù è rappresentato seduto al centro della tavola, circondato dai dodici apostoli, nell’atto di istituire l’Eucaristia e annunciare il tradimento di Giuda. Il dipinto è caratterizzato da una composizione equilibrata e da un’attenzione verso le espressioni dei personaggi, che mostrano emozioni contrastanti, quali stupore ed inquietudine. Gli apostoli mostrano espressioni intense, enfatizzate dalla loro gestualità, e riescono a creare nell’osservatore un forte senso di partecipazione emotiva. L’illuminazione mette in risalto la figura di Cristo, evidenziata dall’aureola che lo distingue dagli altri personaggi. I colori predominanti sono il rosso e l’ocra, con contrasti tra le vesti scure e lo sfondo cupo, che esaltano il dramma della scena. Il chiaroscuro accentua la profondità e il movimento.
Anche se il suo autore è sconosciuto, l’Ultima cena è stata ritenuta realizzata in ambito modenese nel diciottesimo secolo, risentendo ancora della grande pittura barocca, con un forte senso di teatralità e drammaticità. La presenza di questa opera nel Palazzo Arcivescovile testimonia il legame tra arte e religione a Modena, centro culturale di rilievo.

Compianto su Cristo morto
Ambito emiliano, seconda metà sec. XVI
Olio su rame; cm. 22,7×17,5, Modena, Seminario Vescovile
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Il Compianto su Cristo morto è un’opera realizzata nella seconda metà del XVI secolo, attribuita all’ambito emiliano e, in particolare, alla scuola bolognese. Si tratta di un piccolo e raffinato olio su rame di dimensioni 22,7 x 17,5 cm, conservato presso il Seminario Vescovile di Modena.
La scena rappresentata è il Compianto sul Cristo morto, un tema centrale della devozione cristiana in cui è narrato il drammatico momento che seguì la Crocifissione. Al centro della composizione si trova il corpo di Cristo, caratterizzato da una resa anatomica delicata e anatomica, disteso sulle ginocchia della Vergine Maria. Il volto della Vergine, segnato dal dolore, è rivolto verso l’osservatore, trasmettendo una profonda emozione spirituale.
Sulla sinistra della Vergine si scorge un personaggio maschile, il giovane San Giovanni, raffigurato in atteggiamento pensoso e con uno sguardo di pietà rivolto verso il corpo del Redentore. Sulla destra Maria Maddalena, inginocchiata e intenta a sorreggere le gambe di Cristo, completa la scena, mostrando un’intensa partecipazione emotiva.
Nella parte superiore dell’opera due angioletti sospesi in volo osservano la scena con espressioni commosse, aggiungendo una dimensione celeste al momento drammatico. Sullo sfondo si intravede il paesaggio del Golgota con la croce e gli strumenti della Passione, a sottolineare il contesto narrativo della deposizione.
Questo dipinto giunse al Seminario Vescovile grazie all’eredità di monsignor Alessandro Soli Muratori, rettore del seminario, morto nel 1858. È un’opera che coniuga l’eleganza manieristica con una composizione studiata e dettagliata, evidenziando la maestria della scuola bolognese dell’epoca nella raffigurazione di scene sacre.

Pietà
Ambito emiliano, sec. XVII-XVIII
Olio su rame; cm. 21,3×16,5, Modena, Palazzo Arcivescovile
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L’opera, un piccolo olio su rame realizzato in ambito emiliano probabilmente tra XVII e XVIII secolo, è custodita nel Palazzo Vescovile di Modena, ma nulla sappiamo del luogo per cui nacque e della sua storia. Ad essere rappresentata è una Pietà. Al centro troviamo la Madonna che sorregge il corpo esanime di Cristo subito dopo la Crocifissione. Tale tema iconografico ha avuto una grande fortuna nella storia dell’arte, con celebri interpretazioni di artisti come Michelangelo, Reni, Carracci e Ribera.
L’opera è realizzata su una lastra di rame, un supporto pittorico usato frequentemente tra il Cinquecento e il Settecento, soprattutto per dipinti di piccolo formato come quello in esame. Questo materiale consente una resa estremamente dettagliata e colori più intensi e brillanti rispetto alla tela o alla tavola di legno.
Dal punto di vista stilistico, il dipinto mostra caratteristiche barocche, evidenti nel forte chiaroscuro, nella drammaticità della scena e nella resa espressiva dei volti. La composizione è dinamica: il corpo di Cristo si piega diagonalmente, con un senso di abbandono che amplifica l’emozione trasmessa dall’opera. Maria ha un’espressione sofferente, mentre il suo manto blu, simbolo della sua purezza e regalità, contrasta con la pelle livida di Cristo. L’uso della luce è sapiente: un’illuminazione intensa si concentra sulle figure, creando un forte contrasto con lo sfondo scuro, una tecnica tipica della pittura barocca e in particolare della scuola spagnola, alla quale l’opera potrebbe ispirarsi. Questo effetto è simile a quello presente nelle tele di José de Ribera o Francisco de Zurbarán, ma anche ad alcune opere della scuola emiliana, come quelle di Guido Reni o dei Carracci.
Per i catalogatori della Diocesi, infatti, l’opera potrebbe infatti derivare da un modello spagnolo ed essere stata influenzata dalle tendenze artistiche della Controriforma, che. miravano a coinvolgere emotivamente lo spettatore attraverso immagini intense e devozionali.
La sua esecuzione dettagliata, il forte impatto emotivo e la composizione studiata lo rendono un’opera di grande interesse storico-artistico, capace di trasmettere la drammaticità del momento della Pietà con un’intensa forza espressiva.

San Francesco d’Assisi
Ascanio Magnanini (1599–1621) (attr.), 1607
Olio su tela, cm. 210×150 , Spilamberto, Chiesa S. Adriano III papa
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Il San Francesco d’Assisi è un dipinto a olio su tela di 210×150 cm, oggi conservato nella Chiesa di Sant’Adriano III Papa a Spilamberto, nella cappella terza a sinistra.
Al centro dell’opera si distingue San Francesco inginocchiato in preghiera, in un paesaggio naturale che evoca l’ambiente eremitico in cui il santo era solito ritirarsi per la meditazione. La figura indossa il suo caratteristico saio francescano, ed è colta in un atteggiamento di profonda contemplazione, con le mani giunte e lo sguardo rivolto verso un piccolo crocifisso posizionato su una roccia. Questo dettaglio richiama la visione mistica del santo, che, secondo la tradizione, ricevette le stimmate mentre era assorto nella preghiera sul monte della Verna. L’ambientazione è costruita con una sapiente gestione della luce e del colore: il cielo azzurro sullo sfondo crea un senso di vastità e trascendenza, mentre la vegetazione rigogliosa e le rocce circostanti contribuiscono a enfatizzare l’isolamento spirituale del santo. L’artista impiega toni terrosi e sfumature delicate, creando un’atmosfera serena e raccolta. Il trattamento della figura di San Francesco, con un forte chiaroscuro e un modellato morbido, ha portato la critica a riconoscere l’autore dell’opera nel modenese Francesco Madonnina, attivo nel XVI secolo. Una tela simile dello stesso pittore è oggi conservata nel Museo dei Cappuccini di Reggio Emilia. In entrambe le opere, Madonnina segue una tradizione iconografica ben consolidata, ma si distingue per il carattere intimo e raccolto del Santo, che ne enfatizza la solitudine e il suo profondo rapporto con il divino.
L’opera originariamente era collocata nella chiesa di Sant’Adriano a Spilamberto, dove per anni fu oggetto di devozione. Tuttavia, nel 1759, il dipinto venne ceduto alla Confraternita di Santa Maria, che lo trasferì nel proprio oratorio. Questo tipo di passaggio era comune nelle opere d’arte sacra, poiché le confraternite e gli ordini religiosi spesso si scambiavano opere per arricchire i propri luoghi di culto o per motivi di riorganizzazione degli spazi ecclesiastici.
Successivamente, in seguito alla vendita della chiesa, l’opera subì un nuovo spostamento, e solo nel 1964 venne riportata nella Chiesa di Sant’Adriano, restituendola al suo contesto originario. Questo ritorno rappresenta un momento significativo nella storia del dipinto, poiché la sua presenza nella chiesa ne conferma l’importanza devozionale e il legame con la comunità locale.

I santi Rocco e Pellegrino in adorazione della croce
Francesco Madonnina (Modena, 1561 ca. – 1591), seconda metà XVI secolo
Olio su tela, cm. 155×117 Roccapelago, Chiesa della Conversione di S. Paolo
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Il dipinto, custodito nella chiesa della Conversione di San Paolo di Roccapelago, è stato avvicinato dalla critica al nome di Ascanio Magnanini (1599–1621), pittore originario di Fanano attivo tra Cinque e Seicento.
Un’iscrizione posta ai piedi della croce ci informa sulla data di realizzazione dell’opera: 1607. Due ulteriori iscrizioni identificano con certezza i protagonisti dell’opera: i santi Rocco, sulla sinistra, e Pellegrino, sulla destra. Entrambe le figure sono inginocchiate, in contemplazione della croce sormontata dal canonico cartiglio sul quale si legge “INRI” (“Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum”«Gesù Nazareno Re dei Giudei»). Alle loro spalle si apre un vasto paesaggio naturale.
San Rocco è rappresentato in abiti da pellegrino: un lungo mantello rosso sul quale si distingue la valva di una conchiglia, un cappello a tesa larga e il bastone da viaggio. E’ impegnato nell’atto di sollevare la veste per mostrare una piaga, simbolo della peste. Il suo capo, come quello di San Pellegrino, è circondato da un’aureola dorata; entrambi i personaggi rivolgono i loro sguardi verso la croce. San Pellegrino è presentato come un uomo anziano, con una lunga barba bianca. Indossa una corta veste verde sulla quale si dispone un manto violaceo. Sulle sue spalle porta un grosso cappello, mentre con la mano sinistra stringe un bastone. Accanto al Santo vi è una corona, rimando alle sue nobili origini: la tradizione vuole infatti ch’egli fosse figlio del re di Scozia, e che, rinunciato ai privilegi della sua condizione, decidesse di pellegrinare per le terre d’Europa e d’Oriente.

Ultima Cena
Evangelistario detto di ” Matilde di Canossa” manoscritto pergamenaceo, utlimo quarto dell’ XI sec.
Ultimo quarto dell’XI secolo, Nonantola, Museo Benedettino e Diocesano d’arte sacra
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La miniatura fa parte della decorazione di un importante Evangelistario, ossia un codice liturgico contenente i testi dei Vangeli utilizzati durante le celebrazioni religiose. In particolare, questo codice, risalente all’XI secolo, si lega alla celebre figura di Matilde di Canossa e rappresenta una delle più preziose testimonianze del vasto patrimonio dell’antica Biblioteca dell’Abbazia di Nonantola. Oggi, infatti, è custodito presso il locale Museo Benedettino Nonantolano e Diocesano di Arte Sacra.
La scena è inquadrata da una cornice dorata e decorata con dei motivi ad intreccio rossi, verdi e blu. Il soggetto è facilmente riconoscibile: si tratta dell’episodio, narrato dai Vangeli, dell’Ultima Cena. Secondo il racconto, durante la cena per celebrare la Pasqua ebraica insieme ai suoi seguaci, Cristo annunciò il tradimento di uno di loro, evento che provocherà il suo arresto e la condanna a morte per crocifissione.
Nella miniatura, sotto una struttura architettonica a doppio spiovente sostenuta da colonne, si distingue la figura di Cristo, riconoscibile dall’aureola cruciforme, simbolo della sua divinità e del suo ruolo di redentore. Accanto a lui vi sono i suoi discepoli, raffigurati con aureole a indicarne la santità e disposti attorno a una tavola, in una composizione che richiama il sacramento dell’Eucaristia. Le loro espressioni, pur stilizzate, suggeriscono diverse reazioni: attenzione, contemplazione o immobilità. Una figura in piedi, vestita di blu e arancione, si colloca in primo piano e si distingue dagli altri. La posizione isolata permette di identificarlo con Giuda Iscariota nel momento in cui riceve il boccone da Gesù, preludio al tradimento.
Sulla tavola vi sono pesci, pane e calici. Questi elementi hanno una forte valenza simbolica. Il pane e il vino richiamano l’Eucaristia, mentre i pesci sono un chiaro riferimento al simbolo cristologico dell’Ichthys, che rimanda a Gesù come Figlio di Dio e Salvatore.
La ricca decorazione di questo codice – che include altre illustrazioni miniate con scene della vita di Cristo – permette di comprendere la grande ricchezza ed il prestigio di cui godette l’Abbazia di Nonantola nei secoli centrali del Medioevo e costituisce un’attestazione della vivacità intellettuale e artistica e della pienezza della fede in questo importante centro religioso nel corso dei secoli.

Stauroteca con putti
Bottega emiliana, metà sec. XVIII
Argento; cm. 12x11x2, S. Giacomo Maggiore (Montese), Chiesa S. Giacomo
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La piccola opera, realizzata in argento, è una stauroteca, ossia un reliquiario destinato a custodire frammenti della Vera Croce e fa parte del patrimonio artistico della chiesa di San Giacomo nei pressi di Montese.
Non è noto il nome dell’artista che ha realizzato il manufatto, che risulta catalogato come un prodotto emiliano della metà del Settecento. Il prezioso oggetto è a forma di croce: ogni braccio è sormontato dalla figura di un puttino alato. Queste figure sono raffigurate in pose dinamiche e armoniose e hanno un duplice significato: da un lato simboleggiano l’innocenza e la purezza, dall’altro la dimensione celeste della reliquia, custodita entro la teca che si apre al centro della croce. Una base, decorata con motivi vegetali, ne assicura la stabilità. La presenza dei putti e delle volute fogliate conferiscono all’opera un effetto di movimento e leggerezza, che ne aumentano il valore estetico.

Crocifissione di Gesù con Santa Maria Maddalena
Antonio Consetti (Modena, 1686 –1766),1744
Olio su tela, cm. 260×151, Modena, Chiesa del SS. Crocifisso
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La grande tela, raffigurante la Crocifissione, è custodita oggi presso la chiesa del Santissimo Crocifisso di Modena. Un tempo ornava la chiesa di Santa Caterina, eretta tra il 1744 e il 1745 per volere di don Giulio Cesare Gerondelli (m. 1759), al quale si deve anche la commissione dell’opera in esame. Il dipinto giunse nella sua sede attuale dopo l’abbattimento dell’edificio settecentesco nell’agosto del 1986.
La Crocifissione è stata assegnata al pittore modenese Antonio Consetti, importante protagonista della pittura emiliana della prima metà del Settecento. Il centro della scena è occupato dalla drammatica raffigurazione della Crocifissione: Cristo, defunto, pende drammaticamente dalla croce. Ai suoi piedi, inginocchiata e sconvolta dal dolore, si riconosce Maria Maddalena. Gli angeli ai lati del Cristo contribuiscono ad accentuare l’atmosfera mistica e celestiale della scena. L’artista usa luce e ombre per modellare le figure ed enfatizzare il contrasto tra il dolore terribile espresso dalla figura di Cristo e la speranza trasmessa dalla presenza degli angeli. Le figure sacre sono rese con grande attenzione ai dettagli anatomici e ai sentimenti, con la tecnica pittorica raffinata che caratterizza il percorso di Consetti.Lo schema adottato in questo dipinto si ritrova, con leggere varianti, in un piccolo bozzetto riemerso sul mercato antiquario qualche anno fa e in una grande tela nella chiesa di San Giorgio a Varignana di Castel San Pietro (Bologna). Esiste inoltre, nel Fondo grafico della Biblioteca Poletti, una serie di disegni che permettono di ricostruire gli studi per la composizione e i singoli particolari di queste figurazioni.

ultima cena
Francesco Vellani (Modena, 1689 – 1768), Sportello di tabernacolo
Olio su rame, cm. 56x32Modena, Chiesa di San Domenico
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La splendida Ultima cena si trova nella Chiesa di San Domenico a Modena e costituisce lo sportello del tabernacolo posto sull’altare dedicato a San Pio V nel braccio sinistro dell’edificio. Tale imponente altare, come sappiamo da una preziosa fonte storica, era stato ultimato nel maggio 1743, e alla sua decorazione aveva preso parte il pittore modenese Francesco Vellani, autore del dipinto di cui ci stiamo occupando come della grande tela che orna la cappella.
L’opera, di dimensioni contenute, è eseguita su rame, una tecnica che le conferisce un aspetto particolarmente luminoso e raffinato. Al centro della composizione si trova Cristo, col capo circondato da raggi di luce, mentre compie l’atto della consacrazione del pane. Attorno a lui si dispongono gli apostoli che colpiscono per la loro gestualità e il trasporto emotivo con cui partecipano alla drammatica scena. Vellani gioca con i contrasti chiaroscurali, creando effetti visivi davvero intensi, e usa tonalità calde, brillanti, il cui effetto visivo è accentuato dal supporto in rame. Nonostante le dimensioni ridotte, il dipinto è caratterizzato da una forte presenza visiva: la composizione equilibrata, l’eleganza delle forme e la ricchezza dei colori rendono la piccola Ultima cena una delle più preziose testimonianze del ricco patrimonio della chiesa di San Domenico.

Madonna col Bambino e i santi Domenico, Carlo Borromeo, Francesco e Antonino
Bernanrdino Cervi (1586 ca.-1630) sec. XVII Olio su tela, cm. 142,5×88, Levizzano Rangone di Castelvetro, chiesa di Sant’Antonino
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La tela, raffigurante la Madonna col Bambino e i santi Domenico, Carlo Borromeo, Francesco e Antonino è custodita oggi presso la chiesa di Sant’Antonino a Levizzano Rangone di Castelvetro, ma proviene dall’antica parrocchiale della cittadina.
La scena si inserisce nella tradizione iconografica della Madonna del Rosario, diffusa soprattutto tra i Domenicani, ed è caratterizzata da una forte verticalità: la Vergine e il Bambino sono collocati su di un trono di nubi, simbolo della loro dimensione divina. La Madonna indossa una veste rossa con un ampio manto blu, colori tradizionali che richiamano il suo ruolo regale e la sua purezza. Il suo sguardo, dolce e assorto, è rivolto a Gesù Bambino, che a sua volta sorregge una corona di fiori e un rosario, chiaro riferimento alla devozione mariana e al culto del Rosario. Gli angeli che li circondano, con le espressioni delicate e la loro gestualità, aggiungono movimento e armonia alla scena.
Nella parte inferiore i quattro santi sono colti in atteggiamenti fortemente devozionali e i loro occhi sono puntati verso l’alto, in adorazione della Madonna. Partendo da sinistra si riconoscono Sant’Antonino, che richiama la spiritualità domenicana, e San Francesco, che indossa il tipico saio francescano. Completano la scena San Domenico, identificabile grazie al canonico abito bianco e nero, e San Carlo Borromeo, che, con il caratteristico abito cardinalizio, è un importante simbolo della Riforma cattolica e della sua opera di carità.
L’uso del chiaroscuro dona profondità e tridimensionalità all’opera, enfatizzando il contrasto tra luce e ombra. I volti espressivi e la morbidezza delle pennellate trasmettono un forte coinvolgimento emotivo e spirituale, invitando l’osservatore alla contemplazione e alla preghiera. Da questi elementi emerge la qualità dell’opera che riflette l’attività di un artista emiliano attivo del XVII secolo, informato sulle novità introdotte dalla scuola bolognese, e identificabile, secondo gli studiosi, con il pittore modenese Bernardino Cervi. Ai modi di tale maestro rimandano il naturalismo e la spontaneità “carraccesca” dell’insieme, ben riconoscibili nelle pose e nei volti, carichi di sincera fede, dei personaggi dipinti.

Croce astile ora reliquiario
Bottega dell’Italia settentrionale o toscanaSec. XII Spilamberto, Chiesa di San Giovanni Lega di argento e rame punzonata, incisa, dorata, 30,5×18,5×3 cm.
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La Croce in esame è un manufatto tanto antico quanto prezioso che si conserva oggi nella chiesa di San Giovanni Battista a Spilamberto. La sua originaria collocazione non è nota, ma la critica ha ragionevolmente ipotizzato un suo legame con il vivace clima culturale e artistico dell’Abbazia di Nonantola.
L’opera è realizzata in argento e rame. Al centro, realizzata a tutto tondo, vi è la figura di Cristo, concepita in forme assai schematiche. Essa risponde all’iconografia del Christus Thriumphans: Gesù è infatti rappresentato vivo, in una salda posa frontale, con gli occhi ben aperti e un’espressione impassibile a sottolineare la sua vittoria sulla morte.
I bracci della croce, larghi e leggermente allargati, sono minutamente incisi sulla fronte e sul retro. Sulla parte frontale, ai lati del Cristo, si riconoscono la Vergine e San Giovanni. Una fine incisione delinea la sagoma della croce sormontata dal canonico cartiglio e dalla figura di un angelo. Sul retro, invece, l’Agnus Dei, al centro della composizione, è circondato dai simboli degli Evangelisti.
I caratteri stilistici dell’opera la configurano come una preziosa testimonianza dell’oreficeria medievale. Come hanno dimostrato gli studi più recenti, essa è da ritenere un capolavoro di arte romanica, databile al XII secolo, con significative affinità con esemplari analoghi custoditi in Toscana.
Sono tuttavia evidenti anche i segni delle numerose modifiche che la Croce ha subito nel corso dei secoli e che hanno portato ad un suo significativo cambiamento di funzione. Alla base del braccio inferiore è stata infatti aggiunta – probabilmente nel XVIII secolo – una placchetta a forma di “U”, contenente, entro tre piccoli medaglioni, le reliquie di Sant’Adriano, San Giovanni Battista e di altri santi. E’ verosimilmente nello stesso momento che si decise di dotare la croce di una base lignea intagliata, per conferirle stabilità e un aspetto monumentale. Nata come croce astile, l’opera divenne dunque, in un secondo momento, un reliquiario, aumentando il valore spirituale e devozionale dell’oggetto.

VIa crucis
Giuseppe Graziosi ( 1879-1942). 1920 Acquaforte
Nonantola, Museo Benedettino e Diocesano d’arte sacra
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Le opere in mostra sono una splendida testimonianza della produzione grafica di Giuseppe Graziosi, poliedrico artista nato nel 1879 a Savignano sul Panaro e morto a Firenze nel 1942. Esse fanno parte di una serie di acqueforti dedicate alla Via Crucis, realizzate tra il 1919 e il 1920 e donate all’Abbazia di Nonantola dall’editore Emilio Ballestri, in accordo con gli eredi fiorentini del maestro.
Ad essere rappresentati sono quattro momenti fondamentali della Passione di Cristo: la Flagellazione, Gesù cade la quarta volta, la Crocifissione e la Deposizione nel sepolcro.
Nella Flagellazione l’artista pone l’accento sulla terribile ferocia con cui gli aguzzini – per volere di Pilato – infierirono su Cristo, inginocchiato al centro della scena.
La scena della Caduta di Cristo arricchisce il racconto del doloroso cammino di Cristo verso il Golgota. Il peso della croce si fa insostenibile e il corpo di Gesù cede, accentuando la sofferenza fisica e morale del suo viaggio verso il sacrificio supremo.
La Crocifissione è un’immagine centrale nella storia dell’arte cristiana e l’interpretazione di Graziosi riesce a cogliere tutta la drammaticità del momento in cui Cristo viene fissato alla croce, restituendo un’immagine carica di pathos e spiritualità.
Infine, la Deposizione segna il momento in cui il corpo senza vita del Redentore viene adagiato nel sepolcro, un passaggio che suggella la tragedia della Passione ma che rimanda anche alla speranza della Resurrezione. Qui l’artista cattura con grande sensibilità il raccoglimento e la mestizia di coloro che circondano il Cristo, accentuando il senso di lutto e attesa.
Graziosi, attraverso la sua raffinata tecnica, crea immagini di profonda intensità, dando forma a un racconto visivo in cui dolore e redenzione si intrecciano in modo potente. Oggi, queste straordinarie opere sono conservate presso il Museo Benedettino e Diocesano d’Arte Sacra di Nonantola, dove continuano a testimoniare il forte legame tra arte e spiritualità, offrendo ai visitatori un’occasione di riflessione e contemplazione.

Reliquario della Santa Croce a forma di albero
Bottega romana metà sec. XVIII
Argento, ottone, bronzo; cm. 31,7x18x9,5Pievepelago, Chiesa Beata Vergine Assunta
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Il reliquiario è custodito nella chiesa della Beata Vergine Assunta a Pievepelago. Sono poche le informazioni a nostra disposizione su quest’opera che, secondo gli studiosi, è da considerare il prodotto di una bottega romana attiva alla metà del XVIII secolo.
Il prezioso oggetto, realizzato in argento, è concepito come un vero e proprio albero, evidente rimando a Cristo e allo strumento del suo martirio.
Nella fitta trama dei rami si nota una teca cruciforme: essa ospita le reliquie della Santa Croce ed è sormontata dal cartiglio con la canonica iscrizione “INRI”. Dietro la ricca vegetazione una raggiera bronzea infonde una sensazione di luce e sottolinea il valore sacro della composizione.
Grande cura è stata riservata al piede dell’opera, realizzato ad imitazione di uno spuntone roccioso, drammatico riferimento al luogo in cui avvenne la Crocifissione, come ci ricorda anche il teschio che si scorge al centro. Ad alludere al sacrificio di Cristo è inoltre l’iscrizione, in latino, che si legge nel cartiglio sottostante: “Per lignum victor/per lignum victus”.
Dalla roccia si innalza il robusto tronco dell’albero: attorno ad esso si avvolge un serpente, simbolo di tentazione e peccato. Il reliquiario poggia su una base sagomata in lamina di ottone che arricchisce l’opera con un effetto visivo di solidità e magnificenza, mentre il manico, situato sul retro, è realizzato in bronzo, garantendo una presa salda e funzionale, ma al contempo decorativa. Accanto alla raffinata fattura, il reliquiario di Pievepelago si distingue per la perfetta combinazione di elementi dal forte impatto visivo e significati profondi, rappresentando un manufatto di grande valore storico e religioso.

Ultima cena
Bottega bolognse, sec. XIX Sportello di tabernacolo
Argento sbalzato, cesellato, cm. 43x23x4Vignola, Chiesa dei Santi Nazario e Celso
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L’opera che qui si presenta fa parte del ricco patrimonio storico-artistico dell’antica chiesa dei Santi Nazario e Celso di Vignola, un edificio risalente al XII secolo e oggetto di importanti modifiche e abbellimenti nel corso dei secoli seguenti. Si tratta dello sportello del tabernacolo che orna il coretto di sinistra dell’edificio sacro.
Il prezioso oggetto, in argento sbalzato e cesellato, raffigura uno dei momenti più toccanti della vita di Cristo: l’Ultima Cena. Gesù è al centro, con il capo circondato da un’aureola. Ai suoi lati, attorno all’ampio tavolo che domina l’intera scena, si dispongono gli Apostoli. L’autore di questo rilievo, risalente al XIX secolo e riconducibile all’ambito bolognese, si mostra attento alla resa spaziale e alla definizione dei dettagli, come si può vedere nella minuta definizione dell’ambiente in cui si svolge la scena. Con estrema cura è resa la concitazione del momento in cui Gesù annuncia il tradimento. La gestualità dei protagonisti è eloquente, l’emozione sui loro volti palese.
A completare la composizione, nella parte bassa del dipinto, entro una cornice ornata con dei motivi vegetali, si scorge l’Agnus Dei, simbolo cristologico per eccellenza che rimanda al supremo sacrificio del Redentore.
In mostra, quest’opera inviterà il visitatore ad una riflessione sul tema del banchetto, risplendendo tanto per la preziosità dei materiali con cui è realizzata quanto per la complessità dei suoi significati, andando a costituire un pregevole documento di arte e fede

Reliquiario a ostensorio con Cristo e angeli che raccolgono il suo sangue
Bottega bolognse, prima metà sec. XVIII
Argento sbalzato; cm. 40,5×17,5×10,5 Acquaria (Montecreto), chiesa Sant’Andrea Apostolo
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Il pregiato reliquiario, realizzato in argento sbalzato, è custodito della chiesa di Sant’Andrea Apostolo di Acquaria di Montecreto, piccolo centro dell’Appennino modenese.
L’intera struttura è ornata con fantasiosi motivi vegetali che le conferiscono un senso di movimento e leggerezza. Nella parte superiore, al centro, inquadrata da volute e affiancata da carnose foglie e fiori in rilievo, si distingue la teca ovale che ospita le reliquie. Poco sotto la teca appare invece una toccante immagine di Cristo.
In piedi, con la corona di spine sul capo e i fianchi cinti da un perizoma, il Redentore è rappresentato con le braccia sollevate e i palmi delle mani ben aperti a mostrare le sue ferite, mentre due angeli, ai suoi lati, raccolgono il sangue che sgorga copioso da esse.
L’opera ha come sostegno un’ampia base decorata con volute, conchiglie e fiori stilizzati. I suoi caratteri stilistici, e in particolare la vivace decorazione che ne anima la superficie, hanno portato i catalogatori a ritenerla il prodotto di una bottega bolognese attiva nel XVIII secolo.